L'uomo non è nato per rimanere solo. Questo periodo di allontanamento forzato ci ha, quindi, costretti ad affrontare separazione e mancanza. Dove trovare le risposte ai sentimenti che hanno animato le nostre giornate? Ne abbiamo parlato con Don Agostino Pitto, amministratore parrocchiale a Flaibano e Sant'Odorico.
Come ha trascorso questo periodo?
Ho vissuto il confinamento come tempo per fare davvero Quaresima. Con una regolarità quasi monastica, ho letto la Sacra Scrittura ed i classici della filosofia. Ho studiato Bach, perché armonizza l’anima anche in tempo di prova. Mi sono dedicato al riposo e alla preghiera, soprattutto di intercessione, non solo per gli altri, ma anche al posto di quanti vi erano, per varie ragioni, impediti. A questo si è poi aggiunto l’aiuto alla Caritas foraniale, per la consegna degli alimenti a domicilio.
Cosa le è mancato di più della vita di prima?
In particolar modo incontrare i miei familiari e le persone che fanno parte della comunità parrocchiale. “Non è bene che l’uomo sia solo”, leggiamo in Genesi 2,18. Mi è dispiaciuto non poter visitare gli infermi a casa o incontrare i bambini e i ragazzi che seguo nella catechesi. L’unica cosa che mi è mancata davvero è proprio la relazione diretta con le altre persone. Nonostante ciò, non ho mai interrotto la comunione di preghiera.
La scorsa domenica ha rivisto i fedeli in chiesa. Quali sono state le sue riflessioni?
Innanzitutto, con l’aiuto dei collaboratori parrocchiali e con l’approvazione del sindaco e della Protezione Civile, abbiamo ripulito a fondo le chiese, riordinato i banchi per garantire le distanze richieste, e predisposto il necessario per l’igiene delle mani. Tutti coloro che ci hanno dato una mano hanno dimostrato perfetta efficienza di iniziativa e di auto-organizzazione. Umanamente, c’è la gioia di ritrovarsi e di presentarsi finalmente di fronte al Signore come corpo comunitario, per consegnargli ciò che siamo, con le nostre fragilità e il bisogno di sollievo.
Durante questo periodo abbiamo ascoltato storie tristi e complicate. Ci stiamo abituando al dolore?
Se, per abituarsi, intendiamo essere ormai insensibili e indifferenti, no: sarebbe una forma di connivenza col male. Se invece intendiamo “essere-abituali-con”, “avere l’abito di confrontarsi con il male”, allora sì, ed è una cosa buona. Prendiamo coscienza del fatto che il mondo in cui viviamo sia complesso, e nessun bene possa essere dato per scontato. Se in questo periodo di emergenza abbiamo conosciuto storie tristi e complicate, ciò porta semmai a rafforzare la stabilità dell’impegno nella solidarietà, ognuno secondo le proprie possibilità.
Lei è in contatto con la comunità. Quali sono i bisogni e le speranze?
Le persone hanno bisogno, da un lato, che si torni alla normalità, dall’altro, temono di tornare a correre più di prima. Ora, per di più, sono anche diffidenti, perché chiunque potrebbe rivelarsi il tuo untore, di manzoniana memoria. Speriamo di ricominciare, con la dovuta prudenza, ma nella direzione giusta.
Immagini e racconti hanno portato alcune persone a chiedersi dove sia Dio.
Se il Signore fosse un supereroe da fumetto, avremmo ragione di credere che abbia tagliato la corda. L’esperienza di salvezza fatta in Gesù di Nazaret ci rivela, però, un Dio vicinissimo all’umanità, soprattutto se in difficoltà. Non ha bisogno di impedire la sofferenza e la morte per riuscire a portarci alla vita eterna. Anzi, proprio toccando con mano la nostra debolezza possiamo magari aprire gli occhi sulla sua cura verso di noi, per accorgerci che è immerso nel nostro dolore, ed è lì a portare la croce insieme a noi. La Pasqua è mistero di morte e resurrezione. Il Figlio di Dio si immerge nelle nostre morti, per spaccarle e trasfigurarle dall’interno. La fede in Cristo spalanca sempre nuovo futuro, nuova vita.
Pensa che tutto ciò ci abbia insegnato qualcosa?
Ci ha insegnato che siamo strutturalmente fragili e che tutte le millantate sicurezze della società del benessere sono appese a un filo che un nonnulla, un microscopico virus basta a spezzare. Su cosa, dunque, su Chi fondare davvero le nostre vite, così che tutto il resto prenda forma da quella relazione fondamentale e indistruttibile? Qual è il tesoro sicuro in cui riporre innanzi tutto il nostro cuore?